Una Pubblica che cambia: perché il digitale è anche una scelta umana
- Il Pubblichiere Pubblica Sasso Marconi

- 13 ott
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 3 giorni fa
Perché il digitale è anche una scelta umana? Dopo quasi quarant’anni di storie stampate, oggi Il Pubblichiere pubblica la sua prima edizione online. E anche se può sembrare un passaggio semplice e ragionevole, per noi — che viviamo la Pubblica dall’interno — ha significato fermarci a riflettere su molte cose.
Non è solo un aggiornamento tecnologico. È una scelta che tocca la nostra identità, la nostra storia, ma anche le nostre paure. Perché in una realtà come la nostra, dove ogni euro può fare la differenza tra una nuova ambulanza o una riparazione urgente, investire nella comunicazione — che si tratti di tempo da dedicare in riunioni e coordinamenti, o di risorse economiche — può sembrare quasi una colpa. Come se fosse solo una “moda” essere online o sui social.

«Meglio il carburante o uno striscione per promuovere la festa della Pubblica? Meglio una nuova barella o una piccola pubblicità su Facebook per far sapere che esistiamo?»
Personalmente io me lo chiedo: aiuto più qua, al computer, o su un mezzo facendo trasporto sociale?
Eppure questo è un falso dilemma.
Comunicazione e operatività: alleate, non nemiche
Se oggi ci troviamo a scegliere è anche perché, per troppo tempo, la comunicazione nelle associazioni come la nostra è stata vista come qualcosa di “in più”. Un orpello. Una spesa non urgente. Qualcosa che si fa “se avanza tempo”, o se “ci pensa qualcuno bravo con i social”.
Ma oggi ci rendiamo conto che senza comunicazione:
le persone non sanno chi siamo,
non capiscono cosa facciamo (se non quando ci vedono passare con la sirena accesa),
non si avvicinano, non donano, non si propongono, non condividono.
«In un’epoca in cui tutti raccontano, chi non comunica non esiste. O peggio, viene raccontato da altri.»
Così proviamo a prendere in mano quel mondo astratto dei social, e ci troviamo nella voragine di Facebook, Instagram, del sito web, e anche del nostro Pubblichiere — il nostro caro giornale stampato.
Il Pubblichiere: da giornale a spazio condiviso
«Il passaggio dal formato cartaceo al digitale per Il Pubblichiere non è solo una questione di formato. È un gesto di apertura.»
Nel formato cartaceo si raccontava ciò che era già successo. Oggi possiamo raccontare in tempo reale, possiamo raccogliere domande, emozioni, testimonianze. Possiamo, soprattutto, coinvolgere.
E non serve gridare o seguire le mode. Serve costruire uno spazio coerente, chiaro, accessibile: un luogo dove chi ci cerca trova, chi ci legge capisce, e chi ci conosce rimane.
Un’associazione fatta di persone, non di App
C'è un’altra grande paura che dobbiamo nominare. Siamo un’associazione fatta in gran parte da persone che non sono nate con lo smartphone in mano. Persone che hanno dato la vita alla Pubblica, e che oggi rischiano di sentirsi escluse da una trasformazione tecnologica che corre troppo veloce.
Ma questo passaggio non è pensato per escludere nessuno. È pensato per tenere insieme: le nuove generazioni che cercano tutto su Google e chi ancora preferisce una telefonata diretta.
«La nostra scelta, come Commissione di Comunicazione, Cultura e Promozione , non è quella di sostituire il contatto umano con il digitale, bensì di usarlo come strumento per arrivare a persone che, come noi, credono nella forza della relazione, della collaborazione autentica, e che si riconoscono in questa stessa frequenza umana.»
Comunicazione interna: l’anello mancante
La sfida non riguarda solo il pubblico esterno. Riguarda anche noi, dentro.
Oggi la comunicazione interna è il vero collo di bottiglia. Perché farsi capire, allineare obiettivi, avere uno sguardo non difensivo e restare aperti all’ascolto non sono doti spontanee: sono abitudini che vanno coltivate, con cura. È un vero e proprio lavoro. E in un tempo in cui la rapidità sembra comandare tutto, riuscirci diventa ancora più difficile. Ci serve un sistema che ci tenga informati, coordinati, motivati.
«Anche questo è comunicazione. Anche questo salverà la nostra associazione — dalla disorganizzazione, dal burnout, dalla disillusione.»
Una rivoluzione culturale
Questa trasformazione è più profonda di una nuova piattaforma o di un sito web aggiornato. È una rivoluzione culturale.
Vuol dire mettere la comunicazione al centro, non alla fine. Vuol dire che ogni commissione, ogni gruppo, ogni evento ha qualcosa da dire, e che questo qualcosa può e deve essere condiviso. Vuol dire che la Commissione Comunicazione non è una decorazione, ma uno snodo strategico tra le persone, i progetti e il mondo esterno.
Perché vale la pena farlo?
Perché senza comunicazione:
perdiamo nuovi volontari,
perdiamo possibili donatori,
perdiamo la memoria di quello che siamo stati.
E perché con una comunicazione ben fatta:
possiamo raccontarci con dignità,
spiegare il nostro lavoro senza banalizzarlo,
coinvolgere chi ci ha sempre guardato da lontano.
In conclusione
Personalmente, sento questa sfida come qualcosa di profondamente umano. Siamo in una fase di passaggio delicata, in cui dobbiamo essere abbastanza coraggiosi da cambiare, ma anche abbastanza saggi da non perdere ciò che conta: il senso di comunità, il rispetto per il tempo e le storie di chi c’era prima, e la volontà di continuare a esserci — non solo per curare, ma per raccontare.
«Questa è la nostra occasione. Per farlo bene. Per farlo insieme.»
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